Dal microcosmo della biblioteca di casa alla piena cittadinanza del mondo
di Luigi De Santis
Altri e ben più autorevoli relatori, nel corso del Convegno, evidenzieranno i complessi profili che connotano il pensiero, la ricerca, la passione etica e civile, la visione della vita e del mondo del prof. Giuseppe Limone, per noi Peppino. A me, invece, sulla base dei riscontri derivanti da un punto di osservazione più circoscritto, è venuto di cogliere e mettere in rilievo, nonostante l’indubbio limite di una frequentazione segnata da lunghe pause, qualche aspetto, a mio avviso significativo, del suo percorso di crescita come persona.
Ascoltare oggi il nostro Peppino suscita sempre in me, e non solo in me, grande emozione e sincera commozione per l’altezza e la profondità delle sue argomentazioni, sempre originali e acute, frutto di una mente superiore e di una dimensione logico-critica di non comune spessore. Ogni ascolto (ma lo stesso può dirsi di ogni suo scritto) rappresenta, per chi ne fruisce, un’occasione di crescita “affascinante e intrigante”, qualunque sia l’ambito indagato o il tema trattato. Da lui non ti aspetti mai una considerazione scontata e, puntualmente, Peppino, simile a un fiume in piena, anche quando si interroga e riflette ad alta voce su temi quotidiani vicini alla sensibilità del comune cittadino, ti inonda di stimoli e spunti che dilatano la comune prospettiva personale di analisi e di indagine e permettono al tuo pensiero di “andare oltre”, di “affondare” più in profondità e di aprirsi a impensati spazi. Ugualmente “speciale”, per chi ascolta, è la serena modalità con cui Peppino esterna il suo pensiero: un registro e un tono di grande colloquialità, una totale assenza di cattedraticità e di spettacolarità, uno sforzo continuo di esemplificazione e di semplificazione, al fine di rendere comprensibile il messaggio anche quando il tema trattato è intrinsecamente arduo ed ermetico. Il suo sguardo benevolo, il suo atteggiamento familiare, il suo tono pacato, non tradiscono mai il tormento e l’ansia del fine ricercatore e del severo uomo di cultura approdato alle alte vette della conoscenza attraverso immani sacrifici e inenarrabili rinunce, ma trasmettono, invece, l’immagine di una persona dotta e saggia, di un vero “maestro” di cultura che ha conseguito un livello tale di maturazione personale e professionale da poter proiettare all’esterno le proprie “certezze” o i propri dubbi modulando egregiamente, di volta in volta, il registro espositivo a seconda delle circostanze e dei luoghi, in maniera da stabilire sempre e comunque un profondo rapporto empatico con l’interlocutore e di suscitare un “rapimento magico” in chi ascolta o a lui si rapporta. E questo risultato, già eccezionale in sé, ove si consideri che viviamo un tempo in cui l’apparire prevale di gran lunga sull’essere, mi appare tanto più significativo quanto più ripenso all’immagine e all’idea che, di lui, mi ero fatto da giovane.
Luoghi per una memoria
di Giovanni D’Elia
Da dove iniziamo, caro Peppe? Dalle scuole elementari, da casa tua, dall’Azione Cattolica, dall’Associazione Culturale Atellana, da Critica Meridionale, dai nostri confronti-scontri nella piazza Umberto I e nel Consiglio comunale? Ognuno di questi luoghi è ricco di ricordi, di esperienze, di impegni, di speranze, di delusioni, di contraddizioni, di vittorie e di sconfitte.
Un teatro dove insieme, tu e io ci siamo formati, siamo cresciuti e abbiamo avuto una presenza, tu enormemente più di me, che ha lasciato qualche traccia e che costituisce la linea sottile di una comune memoria.
Il nostro percorso è iniziato lì, in quello spazio immenso della nostra infanzia, lungo i cinque anni di apprendimento scolastico sotto la guida di un vero Maestro, il professore Domenico Ievoli.
Te lo ricordi, vero? La sua umanità e la sua capacità di insegnare, di farci apprendere, unite a una severità che mai mortificava la nostra dignità. Sì, perché il nostro professore conosceva bene la psicologia dell’alunno, sapeva vedere in profondità e cogliere le differenze e le esigenze di ognuno di noi. E noi tutti, ma in particolare tu, io, Umberto Cinquegrana, Pasquale Morosini non abbiamo mai dimenticato la sua lezione e volemmo testimoniare la nostra gratitudine con una prefazione a un libro che ricordava il suo impegno politico e sociale nella stagione del nascente regionalismo italiano. Erano gli anni Settanta. Il libro, Un uomo, garanzia di libertà e di democrazia, era un omaggio ai cinque anni di impegno (tanti quanti erano stati gli anni del suo insegnamento) di Domenico Ievoli quale consigliere e assessore regionale al lavoro nella prima legislatura della Regione Campania. E noi, gli ex alunni della 5A, sottolineavamo nella prefazione «l’appassionato, convinto ruolo di un regionalista, di un uomo che, cosciente dei propri limiti, non ha dimenticato che quanto ha proposto e realizzato, egli lo deve, soprattutto, a quella grande, impareggiabile lezione offertagli dal mondo del lavoro», dove fianco a fianco, giorno e notte, per più di vent’anni, ha lavorato con i protagonisti, i lavoratori, per l’affermazione e la crescita di un’autentica democrazia che – come scrisse Tocqueville – «Si difende facendo continuamente qualcosa che l’autentichi; cioè traducendo in risposte, di continuo, le legittime domande popolari». Un insegnamento che ha plasmato i nostri percorsi di vita e ci ha fatto, sia pure da sponde diverse, prendere consapevolezza dell’assoluta necessità di rendere coerenti, nonostante contraddizioni e oggettive difficoltà, le parole e i segni!
A Giuseppe Limone, al suo viaggio
di Maria Teresa Ciammaruconi
Mio caro Giuseppe, a volte penso di odiarti.
Eh sì, perché io ho speso la vita a mascherare sentimenti, a economizzare sulle parole, a cercare mediatori stilistici per sdoganare almeno le emozioni più prepotenti ed ecco che arrivi tu nella sfrontata innocenza dei capelli bianchi, accompagnato da schiere di angeli che ti sorridono scortandoti nell’ascensione al monte Carmelo e ti guidano poi nella discesa attraverso la babele delle città.
Ma ecco che tra i palazzi e gli incroci, dopo avere pensato di avere scelto strade lontane dalle tue, ti ritrovo.
Quanto le abbiamo amate le città! Creature meticcie (le chiameresti) di storia millenaria, congerie generata dall’incontro di piccole storie vive e incommensurabili, invisibili eppure necessarie, tutte. Perché la conosciamo bene la potenza dell’invisibile e tu consumi la tua ventura come un cavaliere antico, sul confine, dove veglia l’angelo…: visibile/invisibile/; vita/morte; finito/infinito; umano/divino. Stai là sul tuo cavallo di utopie, pronto a infrangere le convenzioni perché il confine non sia separazione da subire, ma dono divino dove rendere onore al miracolo del contatto.
Onore. Ecco una parola che ritorna nel tuo viaggio, per te pietra miliare inevitabile, impossibile per me che l’ho relegata tra le specie in via di estinzione. L’ho ritrovata la parola onore, da poco, in una lettera di mio nonno, cavaliere di Vittorio Veneto. Ecco, io non avrei mai osato un termine che mi riportasse sulle trincee del Carso. Ma per la strada lungo la quale ti seguo a distanza, inciampo in un vaso di coccio, piccolo come quello in cui si custodiva il lievito del pane e lì ritrovo il tuo Onore. È un piccolo ventre sopravvissuto al crollo delle città e delle civiltà, nella steppa delle libertà senza valori, salvato dal contagio del male che ha portato al banco dei pegni il futuro/ e i bambini/ in cambio del presente. Il tuo Onore è pronto a reimpastarsi nella massa infida degli eventi che ci è dato vivere, fiducioso di rinnovata fecondità e incendiaria palingenesi.
La dignità del pensare
di Olimpia Ammendola
Giorni fa, in una scuola elementare di Grumo Nevano, un bambino di 10 anni, alla domanda “Perché è necessario studiare”, ha risposto: perché così posso fare il giro del mondo.
È una risposta che colpisce non solo perché insolita, ma perché contiene, dal mio punto di vista, un’ambivalenza interpretativa: o dimostra la consapevolezza che lo studio non è più garanzia di mobilità sociale come 20 o 30 anni fa oppure i bambini sono capaci, travalicando in tal modo le nostre aspettative, di cogliere l’essenza della cultura che altro non è che l’aprirsi al mondo.
Che cos’è il viaggio se non la metafora della conoscenza che nel Novecento ha perduto la sua caratteristica di accumulo progressivo e avaro di nozioni per definirsi come un percorso dal noto all’ignoto? I bambini che, secondo la felice intuizione di Giuseppe Limone, non sanno di sapere, hanno colto che incamminarsi sulla strada del sapere non significa ridurre l’ignoto, come è stato invece prospettato a noi quando frequentavamo la scuola elementare dei programmi Ermini, ma significa probabilmente imparare a battere sentieri non esplorati. È per questo che i bambini di oggi, immersi in questo tempo dove la velocità è un fattore strutturale, dove le conoscenze declinano rapidamente, dove la provvisorietà è divenuto un valore costante, ci pongono una domanda di senso. Il monito di Montaigne, meglio una testa ben fatta che una testa ben piena, ci torna utile in un’epoca in cui la ragione calcolante ha svilito il valore della saggezza e la nostra scuola, benché eternamente riformata, continua a proporre una cultura frammentata, segmentata, dove le antiche opposizioni tra scienza e filosofia, tra matematica e letteratura, tra tecnica e poesia, sono ancora più radicalizzate e irrigidite. Eppure nell’ormai lontano 1920, Husserl nella conferenza sulle scienze europee, avvertiva l’urgenza di rivalutare la funzione arcontica della filosofia, si richiamò alla saggezza degli antichi greci per riprenderci quell’orizzonte di senso che si avvertiva sempre più sbiadito o pericolosamente opacizzato.
Pensieri per un amico
di Valentino Petrucci
Potrei dire tante cose del professor Limone, sforzarmi di illustrare uno dei suoi tanti aspetti della sua attività speculativa allo scopo di comprenderlo, di decifrarlo. In fondo, questo convegno – ogni convegno – ha per definizione sempre questo obiettivo: chiarire, portare alla luce gli elementi costitutivi e permanenti di una personalità. Un po’ come i “grammi d’oro” della memoria letteraria. Non lo farò, non lo farò perché sono convinto che ogni tentativo di sintesi, di riduzione e di semplificazione sia inadeguato e finisca per illustrare la personalità di chi parla, piuttosto che la personalità di colui di cui si dovrebbe parlare. Merleau-Ponty diceva che l’essere umano – ogni essere umano – è talmente complesso che non basta una vita per conoscerlo fino in fondo, per tracciarne le linee di contorno. Avendo rinunciato a questa sfida impari, almeno per me, spiegare Giuseppe Limone a chi non lo conosce, mi si è presentata un’altra scala: quella aneddotica. Con Giuseppe ci conosciamo da trent’anni: quanti episodi, quante vicende, quanta memoria condivisa! Ma non seguirò neanche questa strada. Troppi “mi ricordo” e troppi “c’era una volta”, quindi si rischierebbe di cadere nel patetico. Questo è un Convegno, non un raduno per reduci. Non un consesso di commilitoni attanagliati dalla nostalgia. In conclusione, mi limiterò a presentare e ascoltare, senza però rinunciare al privilegio di chi immeritatamente presiede o meglio siede al centro e dà la parola, scandendo il tempo degli interventi.
Questo privilegio, arbitrario come tutti i privilegi, consiste nel dire una parola, una parola sola sull’opera del professor Limone, ma non quelle essenziali. È indispensabile dire quello che semplicemente più mi piace estrapolare da quest’opera: i suoi aforismi. Giuseppe Limone come scrittore di aforismi. Secondo Heidegger, gli aforismi delimitano l’essenziale. E l’essenziale del professor Limone, ne sono convinto, noi lo troviamo lì, nelle sue raccolte di aforismi. È lì che viene fuori l’impegno civile, l’ironia, la filosofia direi militante e il disincanto di chi ha molto visto e molto letto. Ne cito qualcuno: «Quando viene il tempo delle lettere maiuscole, ci aspettano tempi minuscoli».
Un pezzo della nostra storia
di Giuseppe Dell’Aversana
Sono cresciuto in via Giuseppe Limone e per anni ho scritto e pronunciato questo nome insieme ai miei dati anagrafici e ogni volta come un’eco rimbomba nella mia testa, riportandomi istintivamente a qualcosa di familiare. Il destino mi ha legato a esso e lo conservo dentro come un’ostrica conserva una perla. Incuriosito dalla toponomastica, ho seguito le tracce della vita di questo illustre concittadino e mi sono ritrovato nelle braccia della storia santarpinese, lasciandomi avvinghiare senza più staccarmene.
L’avvocato Giuseppe Limone, uomo di profonda cultura, per quarant’anni segretario comunale di Sant’Arpino, era nonno paterno del nostro contemporaneo. Egli visse all’inizio del secolo scorso operando intensamente per il bene pubblico con onestà e generosità, sorretto da una fede colta e inossidabile. Alla sua morte, avvenuta nel 1927, tale fu la costernazione generale che il comune di Sant’Arpino dichiarò il lutto cittadino. Sia nel secolo Ottocento che nel Novecento, diversi membri della famiglia Limone hanno svolto un ruolo importante nel campo civile e religioso, contribuendo non poco alla crescita della nostra collettività. Per tale ordine di ragioni, la storia degli ultimi due secoli di Sant’Arpino è fortemente intrecciata con la vita di questa famiglia. Lo stesso Peppe, attraverso il suo intenso impegno politico, ha lasciato tracce indelebili nella storia politica ed amministrativa del nostro territorio. Sono ancora impresse nella memoria collettiva del paese le battaglie da lui condotte per la legalità, per il rispetto delle regole, per la difesa dei più deboli, la sua inattaccabile onestà, la sua passione civile, le sue battaglie per la sistemazione urbanistica del territorio in un tempo in cui l’abusivismo era la regola. L’esperienza politica di Peppe Limone, come una cometa, ha solcato il cielo della politica portando una luce nuova che indicava una strada diversa. Con la sua militanza politica ha contribuito a far radicare nella nostra cittadina un tessuto sociale sano, a far crescere un dibattito politico virtuoso ove la sua cifra politica limpida, intransigente e inavvicinabile per intensità e passione ha lasciato echi nelle coscienze di tanti di noi. La sua filosofia della politica è stata concreta, operativa e per molti di noi è stato faro nelle tenebre e punto di riferimento inossidabile.
Antigone e il Pifferaio magico
di Osvaldo Sacchi
L’Antigone di Giuseppe Limone Tra i topoi che meglio caratterizzano la poliedrica, multiversa e scientificamente “transdisciplinare” personalità di Giuseppe Limone c’è sicuramente Antigone e il suo logos che per noi ricercatori e docenti del Dipartimento di Giurisprudenza della Seconda Università degli Studi di Napoli significa anzitutto i Quaderni di Antigone, pubblicazione periodica giunta ormai alla ottava annualità (in nove tomi).
Nell’incipit dell’introduzione al numero di apertura che data 2006, Giuseppe Limone proclama la nostra età, questa parte di terzo millennio che ci riguarda, come età dei diritti. Un’età dei diritti che viene definita ancora una volta Era di Antigone. Ma di quale Antigone parliamo? Quella di Sofocle, dell’orgogliosa Atene che vinse i Persiani e vide l’ascesa e la decadenza del tempo di Pericle? Quella della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, potente edificatore dello Stato di diritto? Quella di Jean Anouilh, un’Antigone incapace di opporsi al governo di Vichy e connivente con i tedeschi che marciarono col passo dell’oca sotto l’Arco di Trionfo a Parigi? Quella di Bertold Brecht, vittima impotente e rassegnata della violenza dei signori della seconda guerra mondiale?
No. Ci dice Giuseppe Limone che la nostra Antigone è quella dei diritti da proteggere contro il potere per trovare un fondamento (ideologico e dialettico) che consenta di misurarci con l’idea di un “diritto naturale” scolpito nella res del cosmo, che è anche il cosmo dei diritti inalienabili scolpiti nella res di ogni persona. Qualcosa da intendere quindi in un modo radicalmente nuovo che sappia andare oltre ogni vulgata costituita e oltre ogni connotazione più o meno confessionale. Qualcosa insomma che sia in grado di porsi come antagonista, appunto come un’ “Antigone”, contro ogni sistema pensato troppo presto.
Verso l’ONU con Giuseppe Limone
di Corrado Beguinot
L’opera del professore Limone ha il ruolo, complesso e completo, di produrre e diffondere conoscenza: qualità, queste, che difficilmente si integrano. Non nel caso specifico, visto che Limone ha intuito che il solo produrre conoscenza non è sufficiente in un periodo in cui la complessità aumenta, generando una distanza sempre maggiore tra l’individuo e l’adeguatezza delle funzioni urbane. Questa distanza, in crescente aumento, non è tuttavia in grado di frenare l’incitazione allo sviluppo generata dai produttori di conoscenza. In generale, è la mancanza di diffusori della conoscenza a incidere sulla limitata e impropria interpretazione del tema della complessità per la soluzione dei problemi dello stare insieme. La complessità, infatti, è la vera ricchezza della città, ma oggi ne è anche una delle cause di crisi.
Negli anni ottanta, vari gruppi di ricerca confidavano nell’utilizzo del progresso scientifico per governare la complessità urbana, con particolare riferimento alle potenzialità dei promettenti settori dell’informatica e della telematica. Così nasceva l’intuizione di mirare a un nuovo e innovativo modello: la città cablata. Questa non avrebbe dovuto essere la città dei tubi, ma la città in grado di recuperare i valori della storia e della cultura urbana. E invece i tubi sono rimasti inutilizzati; le fibre ottiche, che allora sembravano avveniristiche, sono state rapidamente soppiantate dall’etere. Dunque e nonostante il fermento di tante menti, il potente strumento dell’innovazione tecnologica è stato usato male e in quota decisamente modesta, diretta più al consumismo che alla necessità di dare una risposta al tema della città complessa e ingovernata, così da trasformare profondamente il modo di essere, di agire, di interagire degli esseri umani con le istituzioni e con le funzioni urbane. Il consumismo, dunque, ha prevalso e poco o nulla si è fatto per evitare che la città cablata diventasse città dei tubi, in un momento in cui altre componenti iniziavano a incidere fortemente sul tema della crisi.
Continua la lettura del saggio