Rivista Persona

La dignità del pensare

di Giuseppe Limone

di Olimpia Ammendola

Giorni fa, in una scuola elementare di Grumo Nevano, un bambino di 10 anni, alla domanda “Perché è necessario studiare”, ha risposto: perché così posso fare il giro del mondo.

È una risposta che colpisce non solo perché insolita, ma perché contiene, dal mio punto di vista, un’ambivalenza interpretativa: o dimostra la consapevolezza che lo studio non è più garanzia di mobilità sociale come 20 o 30 anni fa oppure i bambini sono capaci, travalicando in tal modo le nostre aspettative, di cogliere l’essenza della cultura che altro non è che l’aprirsi al mondo.

Che cos’è il viaggio se non la metafora della conoscenza che nel Novecento ha perduto la sua caratteristica di accumulo progressivo e avaro di nozioni per definirsi come un percorso dal noto all’ignoto? I bambini che, secondo la felice intuizione di Giuseppe Limone, non sanno di sapere, hanno colto che incamminarsi sulla strada del sapere non significa ridurre l’ignoto, come è stato invece prospettato a noi quando frequentavamo la scuola elementare dei programmi Ermini, ma significa probabilmente imparare a battere sentieri non esplorati. È per questo che i bambini di oggi, immersi in questo tempo dove la velocità è un fattore strutturale, dove le conoscenze declinano rapidamente, dove la provvisorietà è divenuto un valore costante, ci pongono una domanda di senso. Il monito di Montaigne, meglio una testa ben fatta che una testa ben piena, ci torna utile in un’epoca in cui la ragione calcolante ha svilito il valore della saggezza e la nostra scuola, benché eternamente riformata, continua a proporre una cultura frammentata, segmentata, dove le antiche opposizioni tra scienza e filosofia, tra matematica e letteratura, tra tecnica e poesia, sono ancora più radicalizzate e irrigidite. Eppure nell’ormai lontano 1920, Husserl nella conferenza sulle scienze europee, avvertiva l’urgenza di rivalutare la funzione arcontica della filosofia, si richiamò alla saggezza degli antichi greci per riprenderci quell’orizzonte di senso che si avvertiva sempre più sbiadito o pericolosamente opacizzato.

 

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